L’indirizzo della Rete Appenninica, da ora in poi, sarà
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Segnatevelo e aggiornate la vostra rubrica: continueremo a rispondere al vecchio indirizzo, in un periodo di “transizione”, ma ad una certa lo chiuderemo del tutto.
Qui sotto trovate una spiegazione del cambiamento. Per chi segue di più l’argomento privacy e delle problematiche dei social, non c’è niente di nuovo; questo post è per tutte le altre persone.
Perché questo cambiamento?
La mail precedente che avevamo era ospitata presso Gmail di Google. Il problema è semplice: chiunque volesse scriverci doveva, di fatto, accettare che Google leggesse le sue mail. Va bene, potreste dire, qual è il problema? È un servizio gratuito, dovranno pure guadagnarci in qualche modo… ecco, il problema è che questo è solo una piccola parte di un sistema più ampio che non ci piace. Non si tratta semplicemente di “leggere le mail” e darvi, contestualmente, qualche pubblicità mirata. Ma man mano, di costruire un profilo su di voi, a creare un “dossier” cedibile a terzi, dove confluiscono tutte le vostre ricerche (su Google), i vostri acquisti online, il modo in cui usate le app, quando e quanto. A questo si aggiungono tutti i vostri spostamenti se avete un dispositivo Android (a quanto pare, anche senza GPS attivo), e tutto quello che visualizzate online se usate Chrome. E grazie ai cookie e come possono raccogliere informazioni da diversi siti e metterli assieme, anche senza usare Google è possibile finire nelle loro banche dati semplicemente visitando siti terzi, o app, che cedono i vostri dati a Google. Insomma, è molto difficile liberarsene del tutto, a meno che si decida di fare a meno degli smartphone, ma ormai sappiamo che sono richiesti ovunque per servizi essenziali di comuni, banche, mobilità… e se persone che non siete voi, come ad esempio il vostro datore di lavoro, decidono di usare prodotti Google, allora non avete scelta: dovete accettare le loro condizioni (o cambiare lavoro).
Per questo abbiamo deciso che era ora di chiudere la nostra mail. È poco ed è simbolico, ma ci tenevamo a farlo, a spiegare perché. E già che ci siamo, anche a spiegare meglio che…
Continueremo a non usare i social come strumento di comunicazione
Perché i social mainstream (parliamo di Facebook, Instagram, X, Tiktok, …) oltre ad operare nella medesima logica di cui sopra, non ci consentono di decidere come, né quando né con chi comunichiamo. Apparentemente siamo “in controllo” della nostra presenza sui social, ma sempre di più, sono la piattaforma e i suoi algoritmi a decidere, selezionare, filtrare cosa facciamo e cosa no.
Gli strumenti della Rete sono stati pensati per creare una bacheca virtuale, dedicata all’Appennino. Punto.
Non ci servono le notifiche, non vogliamo diventare virali, non ci serve apparire a tutti i costi, né sapere tutto e subito, secondo per secondo. Prediligiamo l’incontro di persona, la calma che viene prendendosi il tempo di fare una cosa e non mille. L’incontro di persona richiede tempo, attenzione e cura. La comunicazione digitale può servire a colmare distanze e difficoltà, questo lo riconosciamo ed è per questo che ne facciamo uso: ma se le interazioni digitali cominciano a rendere subordinati gli incontri di persona, questo non ci sta bene.
I social mainstream non nascono per favorire le connessioni tra le persone, ma come uno strumento di potere e controllo. Il primo software di Mark Zuckerberg nacque come una piattaforma per dare “un voto” alle ragazze sul campus, sulla base del loro aspetto fisico. Facebook non è che la versione ripulita di quel software: si presenta come uno strumento che connette le persone, quando in realtà non è che un grandissimo spazio pubblicitario, non più per umiliare le ragazze questa volta, ma per fare più soldi possibile dalle vostre interazioni. Se la nostra comunicazione è in mano a ditte che hanno come primo obiettivo la crescita ed il guadagno, allora è comprensibile che chi costruisce il social non cerchi di facilitare la comunicazione e le interazioni pacifiche, ma cerchi piuttosto i modi di tenere le persone in un costante stato di insoddisfazione, di inscatolare (e accorciare) i contenuti in modo da consentirne un consumo sempre più drogato, insomma qualsiasi cosa che serva a farvi stare più attaccatə possibile alla piattaforma, a passarci sopra delle ore. Più “amici” avete, più interazioni si fanno, più dati (da vendere a terzi) ci sono, più pubblicità viene visualizzata, più soldi.
Che voi possiate effettivamente comunicare su quelle piattaforme è semplicemente un effetto collaterale. Della vostra comunicazione non avrete mai il pieno controllo, queste compagnie possono decidere da un giorno all’altro cosa è osceno e cosa no (i corpi sono “pornografici”, mentre i crimini di odio e discriminazione sono “libero pensiero”: di recente Facebook, sulla scia di X, ha annunciato di volere abbassare il livello di fact-checking sui contenuti politici), possono prendere il controllo del vostro “wall” (il muro di notizie) e farvi vedere quello che vogliono, possono fare esperimenti su di voi senza dirvelo, e molto, molto altro. Queste compagnie sono perfettamente consapevoli che l’uso dei social è nocivo per la salute mentale, in particolare per i giovani e ancora più in particolare per le ragazze adolescenti. Di fatto, questo design non è casuale, ma è intenzionale: per avere più potere e più entrate, i social mainstream sfruttano volutamente le debolezze umane. Fa Tuttavia, in mancanza di volontà politica di intervenire in merito, è da anni che la situazione non va che peggiorando. Per avere un’idea del fenomeno, consigliamo il libro “La generazione ansiosa” (di Jonathan Haidt – molto utile in particolare la bibliografia del libro, disponibile in parte qui) e la (lunghissima) pagina Wikipedia “Criticism of Facebook“; per un’analisi strutturale della manipolazione del concetto di connessione e amicizia, “If… Then” di Taina Bucher. Per quanto riguarda la privacy e la logica dietro al fenomeno “se un prodotto è gratis, allora il prodotto siete voi”, il libro “
In breve, quello che proponiamo, con la Rete, è un canale di comunicazione digitale che sia in mano alla comunità, e che risponda alle esigenze della comunità, non di altri. Per questo esistono il sito, la newsletter, l’agenda. Sì, esistono delle regole, e non sono strumenti del tutto “liberi”: ma queste regole sono state stabilite di comune accordo. Quando emerge un problema o un bisogno, c’è la possibilità di trovarsi e rivedere gli strumenti così come le regole.
Si tratta di strumenti open-source che abbiamo scelto perché “leggeri”: servono a fare girare un po’ di informazioni e a farci incontrare. Vogliamo fare stare le persone il meno possibile su queste piattaforme e vogliamo anche evitare requisiti tecnici onerosi (non serve uno smartphone di ultima generazione per consultare il sito o per leggere le nostre mail). Per fare tutto ciò, non servono tanti soldi: il costo della nostra infrastruttura digitale è poco più di 100 euro all’anno. chiaramente, il nostro traffico è basso, ma anche se aumentasse, basterebbe un piccolo autofinanziamento.
Pensiamo anche che riprendere il controllo della comunicazione vada fatto gradualmente: capiamo che tante persone si sono abituate alla comodità di Google, Apple, delle app, dei social, e anche noi ci abbiamo messo un bel po’ a fare questi cambiamenti, tra cui la mail. Però possiamo dire: smettere di tollerare le dinamiche tossiche e l’abuso della nostra privacy è possibile se ci si chiede: di quali strumenti abbiamo veramente bisogno? Se invece accettiamo che (in cambio di semplici comodità) le nostre priorità, desideri ed immaginazione siano in mano a compagnie che gestiscono le persone come se fossero una merce, una fonte di guadagno, è inevitabile che la socialità ne risenta, che finisca per essere manipolata ad arte per scopi al di là della connessione e della condivisione. Se lasciamo che la comunicazione venga gestita da queste persone e dalle piattaforme che creano, stiamo regalando loro la nostra stessa comunità.